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VIANDANTE DI MARE

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Nonostante la nave fosse il mezzo preferito per gli spostamenti di merci e uomini, la traversata non era certo confortevole. Lunghe attese in porto per un «passaggio», cattivi odori e cibo razionato a bordo ... e, soprattutto, la temuta forza dei venti.

l viaggi per mare sono cessati sullo scorcio del secolo passato (e il naufragio dell''Andrea Doria , nel 1956. fu um sorta di tragico annuncio della fìne imminente). Oggi restano solo i traghetti, per le comunicazionio con le  isole, ma anche per le traversate relativamente lunghe e le crociere.

Altra cosa sono, naturalmente, i traffici mercantili. Per gli antichi, invece, la nave era il mezzo di trasporto piu utilizzato; non solo per le merci. Ogni volta che fosse possibile, e, in particolare, per i viaggi lunghi, si preferivano le vie d'acqua: con minore spesa e meno fatica di quanto occorresse per le vie di terra, esse consentivano, infatti, di trasportare una maggiore quantità di merci e un maggior numero di passeggeri (esistevano navi che, oltre al carico, potevano ospitarne anche piu di cinquecento). I viaggi per mare avevano però i loro limiti e comportavano disagi, inconvenienti e pericoli non indifferenti. A cominciare dall'impossibilità di viaggiare durante un periodo piu lungo dell'inverno, quando la navigazione veniva sospesa per l'instabilità del tempo e la maggiore frequenza delle perturbazioni e delle tempeste.

Nel giorno di Iside

I Romani chiamavano quel periodo 'mare clausum' ("mare chiuso") ed esso andava dai primi di novembre ai primi di marzo. Le navi restavano allora nei propri porti o in quelli raggiunti fino al momento della sospensione, anche se il viaggio non fosse giunto a compimento. Tanto che nel culto di Iside - della cui mistica vicenda facevano parte le peregrinazioni che la dea aveva compiuto per mare alla ricerca della membra disperse del marito Osiride - la festa che rievocava quella ricerca si celebrava, con nome di 'Navigium Isidis' il 5 di marzo, giorno in cui riprendeva la navigazione. E il momento culminante delle cerimonie - come lo descrive Apuleio (Met. XI,16) - era quello in cui si faceva scivolare in acqua (mare, fiume o semplice bacino artificiale), dopo averlo portato in processione, un modello di nave consacrato alla dea, protettrice dei marinai, carico di offerte e di luminarie e con le vele ricamate di frasi votive e beneauguranti: perché il suo viaggio virtuale aprisse la via a navigazioni tranquille, che, in ogni caso, erano ritenute ideali se effettuate nel periodo dal 27 maggio al 14 settembre, preferito dai viaggiatori piu timorosi.

A condizionare le scelte c'erano, naturalmente, anche i venti. I venti etèsi, cioè «annuali», per esempio, che da giugno a settembre (e, in particolare, tra il 10 luglio e il 25 agosto) spiravano da ovest verso est, rendevano difficile la navigazione dall'Egitto e dalla Siria verso l'Italia, dunque quel periodo veniva di solito evitato, mentre era considerato ottimale per le traversate in senso contrario. La mancanza di un qualsiasi tipo di "servizio pubblico" era uno degli inconvenienti maggiori dei viaggi per mare. Non esistevano navi passeggeri (se non, forse, per il traghetto Brindisi-Durazzo, che collegava la via Appia con la via Egnazia), né compagnie di navigazione e agenzie di viaggio.

Chi aveva necessità d'imbarcarsi non poteva fare altro che recarsi al porto piu vicino (o piu frequentato) e cercare una nave (da carico, ma disposta a imbarcare passeggeri) che un giorno sarebbe partita per la destinazione desiderata. O, almeno, per quella che sarebbe stata una tappa di avvicinamento. Nei porti piu importanti ci si poteva rivolgere alle stationes, o sedi operative, dei «rappresentanti di scalo» degli armatori (i navicularii), come quelle, celebri, del cosiddetto piazzale delle Corporazioni di Ostia. L'attesa poteva protrarsi per giorni, anche per mesi, in relazione alla maggiore o minore importanza della destinazione e perciò dell'intensità del traffico che a essa faceva capo. Era necessario pertanto mettere in conto un soggiorno piu o meno lungo nel porto di partenza (ed, eventualmente, in quello o in quelli intermedi), in una locanda o in un «quartierino» affittato per l'occorrenza. Come fece, per esempio, Sant' Agostino, quando, nel 387, avendo deciso di tornare «in patria», si trasferi, con la madre e il fratello, da Milano a Ostia dove prese alloggio in attesa di una nave che salpasse per l'Africa. Lo ricorda nelle 'Confessioni', rievocando con struggente malinconia gli ultimi colloqui con la madre, Monica, che durante il soggiorno ostiense si ammalò e mori, nel mese di novembre (lontana, quindi, da ogni possibilità di imbarco) : «Io e lei eravamo soli - scrive Agostino - appoggiati alla finestra sopra il giardino interno della casa dove, lontani dal tumulto, dopo la fatica del viaggio, ci ristoravamo prima di metterci per mare» .

Abbandonati a se stessi

Una volta trovata la nave e finalmente imbarcatisi, quale fosse la vita a bordo durante la navigazione, è facile immaginare. Solo considerando che, a prescindere dai disagi causati dalla modestia delle installazioni di bordo e dalla promiscuità con l'equipaggio, i passeggeri venivano abbandonati a se stessi. Di solito non esistevano cabine e per dormire bisognava acconciarsi alla meglio in un angolo del ponte, sotto una tettoia di tela (che di giorno serviva per ripararsi dal sole e dalla pioggia), o, talvolta, in una specie di dormitorio sotto coperta: un'eventuale cabina a poppa era riservata al comandante e a qualche ospite illustre. Per i pasti si doveva ricorrere alle provviste portate da casa (cibi salati e affumicati) ed, eventualmente, rinnovate a qualche scalo. Raramente, su un fornello in comune, si poteva cuocere una focaccia o arrostire un pesce. L'acqua, invece, veniva distribuita, con parsimonia, dal comandante.

Per ogni altra esigenza, non c'era che da arrangiarsi. Un viaggio per mare, insomma, non aveva alcuna attrattiva. Quanto poi fosse addirittura detestabile per le donne, lo conferma - per «contrasto» tra due diversi e opposti atteggiamenti di mogli o amanti - un arguto passo della celebre satira di Giovenale sulle donne (VI, 98-102): «Se è il marito che lo vuole, è duro salire su una nave. Allora il fetore emana dalla stiva; allora l'aria è stravolta. Ma quella che segue l'amante non soffre di stomaco. La prima vomita addosso al marito, l'altra pranza tra i marinai, va su e gili per il ponte e si diverte un mondo a toccare le dure sartie». Il mal di mare doveva essere all'ordine del giorno e dunque tutt'altro che insolito lo «spettacolo» dei passeggeri affacciati alle murate «in atto di dare da mangiare ai pesci», come scrive Petronio (Sat. 103).

Tra «montagne d'acqua»

Per il resto, basta leggere le lamentele di Ovidio - aggravate dalla disperazione dell'esilio - che nel primo libro dei 'Tristia' scrive: «Grandi onde mi spruzzano sulla faccia mentre parlo, e il temibile Noto sconquassa le mie parole ( ... ) E i medesimi venti ( ... ) chissà dove portano le mie vele e le mie preghiere: Me misero! Quante montagne d'acqua mi si rivoltano attorno. Puoi pensare che da un momento all'altro tocchino le stelle. Quante valli si sprofondano quando il mare si ritira. Puoi pensare che da un momento all'altro arrivino al nero Tartaro. Dovunque guardo, non v'è altro che mare e cielo, l'uno gonfio di flutti, l'altro minaccioso di nubi». Il pericolo pili frequente era il naufragio. E in quel caso, le possibilità di salvarsi non erano molte: a disposizione poteva esserci, al massimo, la scialuppa «d'approdo» portata a rimorchio legata alla poppa e chiedere aiuto era pressoché inutile.

Celebre è il naufragio, a Malta, di San Paolo, in viaggio verso Roma (in stato di cattività). Eccone il racconto, dettagliato e vivace, dagli 'Atti degliApostoli' (27-28,13): «Salimmo a bordo d'una nave della città di Adramitto, che stava per salpare verso i porti della provincia d'Asia, e partimmo ( ... ) Il giorno seguente arrivammo a Sidone; qui Giulio (il centurione a cui erano stati affidati i prigionieri) permise a Paolo di andare a ristorarsi da certi suoi amici ( ... ) Poi partimmo da Sidone. Il vento soffiava in senso contrario e allora navigammo al riparo dell'isola di Cipro ( ... ) Arrivammo a Mira, nella Licia. Qui Giulio trovò una nave di Alessandria diretta in Italia e ci fece salire su di essa.

Navigammo lentamente per diversi giorni e a gran fatica arrivammo all'altezza di Cnido. Ma il vento non era favorevole. Perciò navigammo al riparo dell'isola di Creta( ... ) Finalmente arrivammo a una località chiamata "Buoni Porti", vicino alla città di Lasèa. Avevamo perso molto tempo ( ... ) ed era ormai pericoloso continuare la navigazione. Paolo l'aveva fatto notare ( ... ) Ma Giulio ( ... ) dette ascolto al pilota e al padrone della nave ( ... ) D'altronde, la località di "Buoni Porti" era poco adatta per passarvi l'inverno: perciò la maggioranza dei passeggeri decise di ripartire per raggiungere possibilmente Fenice, porto di Creta, esposto a sud-ovest: li si poteva passare l'inverno. Intanto si levò un leggero vento da sud, ed essi credettero di poter realizzare il loro progetto. Salparono le ancore e ripresero a navigare, tenendosi il pili possibile vicino alle coste cretesi. Ma all'improvviso si scatenò ( ... ) un vento impetuoso ( ... ) La nave fu investita dalla bufera: era impossibile resistere a to e perciò ci lasciavamo andare alla deriva( ... ) La tempesta continuava a sbatterci d'ogni parte con violenza ( ... ) Per parecchi giorni non si riusci a vedere né il sole né le stelle, e la tempesta continuava sempre pili forte. Ogni speranza di salvarci era ormai perduta. Da due settimane ci trovavamo alla deriva ( ... ) quando a un tratto, verso mezzanotte, i marinai ebbero l'impressione di trovarsi vicino a terra. Gettarono lo scandaglio e misurarono venti passi ( 40 m circa) di profondità. Un po' pili avanti ( ... ) ne misurarono quindici (30 m circa). Allora, per paura di finire contro gli scogli, calarono da poppa quattro ancore e aspettarono con ansia le prime luci del giorno ( ... )
Sulla nave eravamo in tutto 276 persone e, dopo aver mangiato a sufficienza, gettarono in acqua il grano per alleggerire la nave».

Finalmente salvi «Spuntò il giorno, ma i marinai non riconobbero la terra alla quale c'eravamo avvicinati: videro però un'insenatura che aveva una spiaggia e decisero di fare il possibile per spingervi la nave. Staccarono le ancore e le abbandonarono in mare: contemporaneamente, slegarono le corde dei timoni, spiegarono al vento la vela principale e cosi poterono muoversi verso la spiaggia. Ma andarono a sbattere contro un banco di sabbia, e la nave s'incagliò. Mentre la prua, incastrata sul fondo, rimaneva immobile, la poppa andava sfasciandosi ( ... ) ma il centurione ( ... ) comandò a quelli che sapevano nuotare di gettarsi per primi in acqua per raggiungere la terra. Gli altri seguirono, aiutandosi con tavole di legno e rottami della nave. Cosi, tutti riuscirono a salvarsi. Dopo essere scampati al pericolo, venimmo a sapere che quell'isola si chiamava Malta ( ... ) Dopo tre mesi ci imbarcammo di nuovo su una nave di Alessandria che aveva passato l'inverno nell'isola ( ... ) Arrivammo a Siracusa e qui restammo tre giorni. Poi, navigando lungo la costa, giungemmo a Reggio. Il giorno seguente si levò il vento del sud e cosi in due giorni potemmo arrivare a Pozzuoli».

Testo di Romolo A. Staccioli pubblicato in "Archeo", Milano, Italia, marzo 2011, n.52, estratti pp.98-101. Digitalizzati, adattato e illustrato per Leopoldo Costa

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