Un quarto degli stock ittici mondiali è sovrasfruttato e nei mari del nostro continente si arriva al 75 per cento. Ora l’Unione Europea tenta di approvare una riforma drastica della Politica comune della pesca per salvare quel che resta.
Con le sue 5mila scatolette al minuto, la Indian Ocean Tuna Limited è fra i maggiori impianti di lavorazione del tonno, che riceve congelato dalle flotte internazionali e inscatola per la grossa distribuzione. Catturato a ritmi di mezzo milione di tonnellate l’anno il tonno, rosso o pinna gialla che sia (Thunnus thynnus e Thunnus albacares), non è l’unico pesce ambito e perciò a rischio.
Gli fanno buona compagnia altre specie, fra le dieci più pescate al mondo da cui si ricava il 30 per cento del pescato totale annuo: merluzzi (Merluccius spp. e Gadus morhua), spigole (Dicentrarchus labrax), sugarelli (Trachurus spp.), halibut (Hyppoglossus hyppoglossus), salmoni (Salmo salar e Onchorinchus spp.), pesci spada (Xiphias gladius), gamberi, acciughe (Engraulis encrasicholus). Tutte o quasi sono ai limiti dello sfruttamento sostenibile. Ciò non stupisce se si considera che, dal 1950 a oggi, il pescato annuale mondiale è quintuplicato, passando da 18,7 milioni nel 1950 a 92 milioni di tonnellate nel 2006.
Questa crescita ha illuso gli operatori di poter toccare, e superare, quota 100 milioni. Così non è stato e non sarà. Perché? Semplicemente perché gli oceani non ce la fanno più. E allora, esauriti gli stock ittici che credevamo infiniti, con che cosa sfameremo le centinaia di milioni di individui che oggi vivono di proteine di pesce e, soprattutto… coloro che devono ancora nascere?
In principio fu il merluzzo
“Il merluzzo è il simbolo di una crisi mondiale, nata nel Secondo dopoguerra ma emersa prepotente negli anni Novanta del ’900”, dice Roberto Odorico, biologo marino della Riserva Naturale Marina di Miramare, a Trieste. All’inizio i grossi pescherecci canadesi catturavano fino a 250mila tonnellate di merluzzi l’anno, a Sud del Labrador e al largo di Terranova. Con l’arrivo di concorrenti spagnoli, portoghesi, francesi, britannici, russi e asiatici che si spingevano, legalmente, fino a 12 miglia dalle coste canadesi, alla fine degli anni ’60 il pescato toccò picchi di 1,8-2 milioni di tonnellate.
Le prime avvisaglie della crisi, nel 1975, con appena 300 mila tonnellate di merluzzi pescati, innescarono tensioni che portarono Islanda e Gran Bretagna a un passo da una guerra del pesce. “Fu allora che il governo canadese decise di proteggere i propri merluzzi portando il limite delle acque territoriali a 200 miglia nautiche dalla costa”, spiega Odorico. “Però, invece di ridurre la pesca e permettere il ripristino degli stock, i canadesi impiegarono intensivamente reti a strascico ed enormi navi-fabbrica, per congelare e semi-lavorare il pesce fresco”.
Le navi fabbrica
Nei primi anni del Novecento le factory ship servivano solo come supporto alla caccia delle balene, di cui lavoravano il prezioso olio, eliminando la carcassa: la capostipite salpò dalle Spitzbergen, in Norvegia, nel 1903. Le moderne navi-fabbrica, però, si sono trasformate in giganteschi colossi equipaggiati di tutto punto che fanno da supporto alle flotte di pescherecci (per lo più giapponesi, coreani, russi), seguendole durante le battute di pesca, pronte a ricevere il pesce subito dopo che questo è stato pescato.
Secondo la FAO, le navifabbrica con una stazza superiore a 100 tonnellate attualmente in circolazione sarebbero più di 38mila. Vengono chiamate anche mother ship, navi madre, perché alcune di esse possono trasportare a bordo, fino a località remote, piccoli vascelli più agili e versatili per rapide battute di pesca. In alternativa, fungono da supporto alle flotte che operano a grande distanza dalla madre patria, evitando loro di dover rientrare per depositare al sicuro il carico prezioso.
Su queste navi, la lavorazione del pesce inizia immediatamente e si conclude nel giro di poche ore: in questo modo si evita il deterioramento della carne ma anche la perdita di principi nutritivi e delle qualità organolettiche. Appena pescato, infatti, il pesce viene eviscerato, pulito e persino sfilettato. A questo punto è pronto per essere surgelato, sempre a bordo.
Timidi segnali di ripresa
Fino a vent’anni fa, nel Nord Atlantico l’impiego delle factory ship diede un forte impulso alla pesca del merluzzo e nello stesso tempo accelerò il declino delle popolazioni ittiche. La crisi toccò l’apice nel 1992, quando il governo del Canada impose un divieto di pesca che fece perdere il lavoro a 30-40 mila pescatori.
Ora, dopo due decenni di moratoria, il merluzzo è tutt’altro che fuori pericolo ma si cominciano a intravedere segnali di recupero. “Recenti ricerche indicano che i merluzzi vivono più a lungo e diventano più grandi”, ha affermato George Rose, direttore del Centre for Fisheries Ecosystems Research alla Memorial University di St. John’s, dopo aver concluso un viaggio di sei settimane a bordo della nave di ricerca Celtic Explorer che alcuni gruppi di scienziati hanno affittato dal Marine Institute d’Irlanda.
La ragione di questa lenta ripresa, tuttavia, non sembra dovuta solo ai divieti. “Stiamo assistendo a un importante cambiamento del ‘sistema’”, prosegue Rose. “Al largo del Labrador abbiamo registrato una temperatura delle acque anche di 2 °C superiore alla norma, un incremento enorme, segno che sta cambiando l’ecologia di alcune zone”.
Secondo i ricercatori, infatti, negli ultimi anni è aumentato il numero dei capelin, piccoli pesci alla base della dieta dei merluzzi, e per questo gli stessi merluzzi hanno iniziato un lento recupero. “Gli stock tuttavia restano il 90 per cento sotto i livelli registrati negli anni ‘80”, ammonisce Don Power, responsabile del Dipartimento della Pesca della provincia canadese di Terranova e Labrador.
Le proposte europee
Se le notizie provenienti dal Canada inducono solo un cauto ottimismo, le prospettive di altre specie atlantiche come eglefini (Melanogrammus aeglefinus), pollack (Theragra chalcogramma) e halibut sono ancora meno rosee. E l’Europa, non esente da responsabilità, deve cercare nuove soluzioni. “Oggi più che mai, un aspetto deleterio della pesca è la cattura del novellame e del sottotaglia: forme giovani o larvali, non ancora mature sessualmente”, sottolinea ancora Odorico.
“In base a un regolamento della Comunità Europea, la loro uccisione precoce è illegale, perché impedisce il ripristino degli stock. Mancano misure di protezione delle zone in cui i giovani pesci si riuniscono e una regolamentazione più rigorosa delle maglie delle reti, che dovrebbero essere più larghe per consentire ai giovani di sfuggire alla cattura, anche se accidentale”.
Il 13 luglio 2011 Maria Damanaki, Commissario europeo per la pesca, ha presentato un pacchetto di proposte per riformare la Politica comune della pesca (Pcp), che saranno discusse dal Consiglio dei Ministri dell’UE e dal Parlamento entro il 1 gennaio 2013, prima di essere adottate dai Paesi membri. La riforma tocca molti punti caldi. Vieta, per esempio, di rigettare in mare le specie prive di valore commerciale catturate accidentalmente e ormai morte.
Spesso, queste specie rappresentano dal 20 al 40 per cento di una battuta standard di pesca, mirata alla cattura di varietà più pregiate. Nelle intenzioni, una norma di questo tipo ammortizzerebbe l’impoverimento ittico, perché dovendo portare a terra tutto il pescato non ci sarebbero sprechi e le imbarcazioni raggiungerebbero prima le quote di pesca a loro assegnate. Inoltre, si ridurrebbe l’impatto sull’ecosistema visto che non tutto il pescato rigettato in mare entra a far parte della catena alimentare. Secondo i critici della riforma, però, è lampante la difficoltà di avviare un sistema di controlli efficace per prevenire, o per lo meno ridurre, questa pratica dannosa.
Un secondo aspetto al vaglio degli esperti è il tentativo di normare l’accesso alla pesca, introducendo dei limiti per ciascuna specie: in altre parole, a ogni Paese verrebbe concesso il diritto di pescare non oltre precise quantità delle singole varietà. Un punto delicato, oggetto di aspri dibattiti, riguarda l’idea di “rendimento massimo sostenibile” (maximum sustainable yield), parametro che dovrà diventare operativo dal 2015, che stabilisce la quantità massima di pesce catturabile in un determinato arco di tempo, senza che ciò pregiudichi la sopravvivenza degli stock ittici. “Si tratta di un concetto nato nel 1982 nell’ambito della Convenzione ONU sul diritto del mare”, spiega Marco Costantini, responsabile Mare del WWF Italia, che è piuttosto critico su alcuni aspetti della riforma, da lui definiti poco condivisibili in quanto vaghi. “Con quale criterio dovremmo calcolare il rendimento massimo sostenibile?”, si chiede Costantini. “Se, issando le reti, trovo decine di specie diverse, come posso quantificare questo valore? Su quale delle specie pescate lo devo calcolare?”.
Taglie critiche
Alcuni studiosi, infatti, ritengono si debba tenere in considerazione un altro parametro, più puntuale, la biomassa riproduttiva ovvero le dimensioni globali di una popolazione ittica, comprendenti anche i giovani pesci in età pre-riproduttiva e riproduttiva. “Non si dovrebbero pescare pesci al di sotto di una certa taglia critica, che differisce da pesce a pesce e indica che quell’individuo non ha ancora raggiunto la maturità sessuale e perciò non si è ancora riprodotto”, chiarisce il responsabile del WWF. Dunque divieto di pescare tonni con meno di 30 chili o sardine con meno di 9 centimetri di lunghezza, perché gli stock ittici devono potersi riprodurre e per far ciò è necessario che la biomassa riproduttiva, il motore che fornisce nuove reclute a quella popolazione, non venga intaccata.
Dal 31 dicembre del prossimo anno la riforma introdurrà anche il sistema di concessioni di pesca trasferibili (Tfc) per tutte le imbarcazioni più lunghe di 12 metri. “Ogni Paese - spiega ancora Costantini – disporrà di una quota di pescato, un ‘pacchetto di pesca’, che potrà essere venduto (una sorta di subappalto) tra diversi soggetti all’interno di quello Stato. L’obiettivo di questo provvedimento è cercare di ridurre le dimensioni di una flotta europea che è ormai sovradimensionata. Ma è probabile che, così facendo, si finisca per danneggiare i piccoli pescatori, costringendoli a indebitarsi per acquistare le concessioni dai grandi operatori ittici”.
Nord chiama Sud
Sul depauperamento dei mari, Rainer Froese, ecologo marino dell’Istituto Leibnitz di Scienze marine di Kiel, Germania, è netto: “Moltissimi degli stock principali sono così impoveriti che, anche se avessimo bloccato la pesca delle specie sovrasfruttate nel 2010, non riusciremmo a ripristinarle entro il 2015”, anno in cui l’Europa, in base alla convenzione UNCLOS, è tenuta a ricostituire gli stock ittici perduti.
Non tutti, però, individuano nel saccheggio umano degli oceani l’unico responsabile della situazione attuale. “La maggior parte delle popolazioni ittiche si espande e si riduce ciclicamente, talvolta può persino collassare, e la ‘colpa’ non è necessariamente della pesca”, dice Menakhem Ben-Yami, ecologo israeliano che in passato ha lavorato per la FAO. “Le popolazioni, infatti, possono essere impoverite anche dall’inquinamento costiero e fluviale, dalla distruzione di habitat essenziali per la riproduzione e la crescita dei pesci e dall’invasione di parassiti esotici.
Si pensi a ciò che accadde qualche decennio fa nel Mar Nero con la proliferazione di uno ctenoforo che si cibava di uova e larve di pesce”, ricorda Ben-Yami. Negli anni ’80 Mnemiopsis leidyi, un organismo dall’aspetto gelatinoso, originario delle coste atlantiche americane, fu erroneamente introdotto nel Mar Nero dalle acque di zavorra riversate dalle petroliere. Trovando un ambiente senza competitori per le risorse di cui aveva bisogno, cominciò a produrre enormi aggregazioni che in pochi anni decimarono gli stock ittici locali.
Una visione meno pessimista è quella di Massimiliano Cardinale, ricercatore della Swedish University of Agricultural Sciences di Lysekil, in Svezia. “Bisogna distinguere quel che è stato fatto in Nord Europa da quel che non viene fatto in Mediterraneo”, spiega l’esperto di gestione della pesca e di strategie di cooperazione internazionale riferite al settore alieutico. “Da dieci anni a questa parte il NordEst atlantico è in ripresa. Eglefini, platesse, sogliole e persino alcuni stock di merluzzo, sono sfruttati in accordo con il principio del rendimento massimo sostenibile che, in teoria, dovrebbe consentire il ripristino numerico delle riserve ittiche”.
Da uno studio che Cardinale e alcuni colleghi danesi, tedeschi, britannici e italiani hanno effettuato su quaranta stock di pesci già esaminati dal Consiglio internazionale per l’esplorazione del mare (Ices) emerge, per esempio, che la mortalità per pesca accidentale delle specie citate è diminuita nell’ultimo decennio, mentre la biomassa di questi pesci è aumentata, al pari della loro capacità riproduttiva. “Non è vero che a Nord la situazione è drammatica”, ribadisce Cardinale.
Futuro “erbivoro”
La stoccata è diretta di nuovo a Froese, che dalle pagine di Nature tuona contro la riforma della Politica comune della pesca definendola lobbistica e inconcludente. “La Pcp è in fase di revisione non perché abbia fallito gli obiettivi che si era data, ma solo perché le politiche comuni europee vengono riviste ogni dieci anni”, ribatte Cardinale. E a proposito del Mare Nostrum aggiunge: “In Mediterraneo la situazione è critica perché manca la volontà politica e gli Stati costieri non riescono ad accordarsi”.
Che fare quindi in attesa che le norme entrino in vigore e comincino a produrre effetti significativi? “Anche se non potrà sostituire la pesca, in Europa l’acquacoltura ha un futuro importante”, conclude il commissario europeo per la pesca Maria Damanaki. “Alcune tra le specie più produttive che attualmente si allevano sono erbivore, e ciò significa che si evita di cibarle con altra carne di pesce, ma soprattutto sono in corso studi per sviluppare nuovi mangimi adatti a specie carnivore, come salmonidi o gamberetti. L’obiettivo è intaccare il meno possibile le risorse naturali”. L’importante è fare in fretta.
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RIDURRE LA FLOTTA
Il Rapporto FAO del 2007 fornisce una messe di dati significativi sulla pesca mondiale: il paese con la maggiore produzione ittica è la Cina (46 milioni di tonnellate annue), mentre India e Perù seguono a significativa distanza con poco più di 7 milioni.
L’Unione Europea dei 27 è quarta, con 6 milioni e mezzo di pescato o allevato. Al suo interno fanno la parte del leone Spagna (1 milione), Francia e Inghilterra (circa 800mila). Poi viene l’Italia con quasi 500mila tonnellate. Per l’Unione sono particolarmente indicativi i dati 2011 sulla sua flotta: 83mila imbarcazioni dai 6 ai 75 metri, con un’età media di 26 anni. “La flotta è troppo vasta ed eterogenea per consentire una gestione uniforme ed efficace”, sottolinea Marco Costantini, responsabile Mare del WWF Italia, rilevando l’assurda spesa investita per smaltire l’eccesso di flotta (2,73 miliardi di euro, dal 1994 al 2013), dovuta al fatto che l’UE ordina agli armatori di tagliare parte dei propri pescherecci e, in cambio, eroga sovvenzioni provenienti da fondi pubblici. “Tale flotta dà lavoro a 355mila persone, cioè a una fetta di popolazione che rappresenta appena lo 0,2 per cento dell’economia dell’Unione Europea. Nonostante siano poche, solo ora si sta cercando di dare delle regole”.
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COME SI PESCA
Gli attrezzi per la pesca si dividono in due grosse categorie: fissi, cioè ancorati al fondale (impiegati nella piccola pesca costiera) o derivanti, cioè flottanti con le correnti e usati perlopiù per pesca d’alto mare. Il Regolamento 1967/2006 stabilisce le misure tecniche per la conservazione delle risorse della pesca entro le 12 miglia, definendo caratteristiche e dimensioni di reti e specie.
Tramagli
Hanno tre strati, con maglie di dimensioni decrescenti dall’esterno all’interno. Il pesce entra attraverso la pezza o parete esterna e resta ammagliato nella mappa interna.
Reti da imbrocco
Note come gill net, reti da branchie, intrappolano i pesci bloccandone gli opercoli branchiali. Non possono superare i 2,5 km, né individualmente né sommando la lunghezza di più reti.
Spadare
Illegali perché causano una moria di cetacei e tartarughe marine, sono usate per la cattura di pescispada e tonni.
Reti a strascico
Hanno una bocca aperta e un sacco conico in cui si impigliano i pesci. Arano il fondale marino con zavorre che le mantengono sul fondo. Oltre ai pesci, trascinano coralli, posidonie e molluschi. In Italia, dove lo strascico è vietato entro le 3 miglia marine, pescano con questa tecnica circa 3700 imbarcazioni, specie in Adriatico (circa 2.100 barche) e in Sicilia.
Palangari o palamiti
Da un lungo cavo principale di corda o acciaio pendono, a intervalli regolari, i braccioli: spezzoni di cavo più sottili con un amo all’estremità (per legge mai più di 200). Sono pericolosissimi per gli uccelli e le tartarughe marine che si allamano pur di impadronirsi dell’esca.
Ecoscandaglio
Apparecchio elettronico che invia un’onda acustica verso il fondale. Consente di calcolare la profondità, individuare rocce e banchi di pesci.
Testo di Cristina Serra pubblicato in "BBC Science", Milano, Italia, Agosto 2012,Anno II, n. 11, estratti pp.66-73. Digitalizzati, adattato e illustrato per Leopoldo Costa