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L'ETÀ DELL'ECCEDENZA ALIMENTARE

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La guerra allo spreco alimentare si combatte anche nei supermercati. C’è chi investe in tecnologia per ridurre l’invenduto e chi punta sulle donazioni. Tra tante difficoltà.

Sono le otto di sera e dopo un’intensa giornata di lavoro ci tocca pure fare la spesa. Ci trasciniamo stancamente al supermercato. Parcheggiamo con facilità: nessuna fortuna, è che l’ora di punta è passata da un pezzo. Ci dotiamo di carrello e ci prepariamo a uno (svogliato) slalom tra gli scaffali. Cosa succederebbe se il primo reparto che incontriamo, quello dell’ortofrutta, invece di darci la carica con la sue montagnette multicolori, lo trovassimo desolatamente semivuoto e con le cassette male assortite? Di certo non diremmo: «Che efficienti in questo punto vendita nel prevenire lo spreco alimentare.

Di sera rinunciano a impilare prodotti deperibili come frutta e verdura che, data l’ora, non riusciranno a smaltire». Siamo sinceri, è un pensiero che neppure ci sfiorerebbe. Saremmo invece assaliti dallo sconforto e ci rifugeremmo magari nel primo reparto di superalcolici (stiamo esagerando). E infatti la grande distribuzione, proprio per accontentare i clienti e assicurarsi preziose vendite, si preoccupa di fare esattamente il contrario.

È per questo che in qualunque momento della giornata gli scaffali traboccano di merci, il banco panetteria ha in bella mostra fragranti baguette appena sfornate e svariate altre forme di pane, il reparto gastronomico pullula di cibi pronti e prodotti freschi.

Insomma, inconsapevolmente noi consumatori con la nostra voglia di ricchi assortimenti – e anche di perfezione estetica (infatti scartiamo subito la frutta con piccoli difetti e i prodotti in confezioni leggermente danneggiate) – alimentiamo lo spreco. Ma forse sarebbe sbagliato giungere subito a questa conclusione pessimistica.

Tra la fame e l’abbondanza

Utilizzare la parola spreco significa presupporre che questi alimenti andranno a finire nella spazzatura, cioè che saranno smaltiti come rifiuti. E invece il destino di ciò che, pur avendo perso gran parte dell’attrattiva estetica rimane ancora commestibile, appetibile e sicuro, è ancora nelle mani del punto vendita.

Questi prodotti potranno essere sottratti al cassonetto, per essere donati a enti benefici, che hanno come principale attività quella di offrire gratuitamente un pasto a chi non può permetterselo. E la crisi ha purtroppo moltiplicato il numero delle persone in difficoltà. «Non serve colpevolizzare qualcuno, né i consumatori né la grande distribuzione» esordisce Giuliana Malaguti del Banco Alimentare, la onlus nota soprattutto perché organizza ogni anno la Giornata nazionale della colletta alimentare.

In realtà questa fondazione è da molti anni quotidianamente impegnata a recuperare (dalla grande distribuzione, dai produttori, dalle mense, dagli hotel) alimenti confezionati e freschi, come frutta e verdura, cibo cucinato ma non servito, pane e dolci, che nel giro di poche ore sono consegnati a enti benefici sul territorio.

A loro volta questi li ridistribuiranno ai bisognosi. «L’abbondanza di offerta è un fatto positivo, è la storia che ce lo insegna. Diventa negativa se non viene condivisa con chi non ha accesso all’abbondanza, quando di fatto viene sciupata, quando l’eccedenza diventa rifiuto: è allora che si è autorizzati a parlare di spreco» puntualizza come avviene nel contesto familiare.

La legge italiana del buon samaritano, ispirata a un’analoga norma statunitense, è un unicum in un’Europa le cui istituzioni centrali non hanno ancora messo a punto una politica comune per la gestione delle eccedenze e delle donazioni. Anzi alcuni regolamenti che riguardano l’igiene e la sicurezza degli alimenti, se interpretati rigidamente (come avviene in alcuni Paesi), possono addirittura ostacolare la generosità. La mancanza di una linea comune crea confusione nella pratica quotidiana.

Per esempio il regolamento europeo sull’etichettatura (n. 1169 del 2011) nel definire i concetti di scadenza degli alimenti tocca un punto cruciale nell’indicare il destino dei prodotti giunti a fine vita. Gli alimenti che hanno una data di scadenza precisa (da consumarsi entro), una volta superato questo termine stringente, non possono assolutamente né stare più sul mercato né essere donati, perché sono altamente deperibili e, se ingeriti, potrebbero causare un’intossicazione.

Altro discorso per i prodotti con il termine minimo di conservazione, espresso con la dicitura da consumarsi preferibilmente entro... (attenzione all’aggiunta dell’avverbio “preferibilmente”). Si tratta perlopiù di alimenti secchi e scatolame che, anche quando superano questo termine, rimangono commestibili e sicuri; ciò che va perduto è una parte dei nutrienti dichiarati oppure parte del normale gusto.

In altre parole, mangiandoli non si rischia alcun mal di pancia, per questo non c’è alcun divieto esplicito a donarli, una volta superato questo termine. Resta però il problema per cui gli alimenti con un termine minimo di conservazione non sono tutti uguali: una cosa è la crostatina (con un termine di 2 mesi) un’altra il tonno in scatola (3 anni). Un esempio positivo arriva dal Belgio, che ha redatto una serie di linee guida (non vincolanti) per prolungare la vita di alcuni prodotti alimentari dopo il termine minimo di conservazione. Per varie categorie di alimenti sono previsti intervalli di tempo entro i quali, superato il termine minimo di conservazione, possono essere comunque donati. Insomma, occorre maggiore chiarezza e differenziazioni precise, come è stato anche evidenziato dal Pinpas (“Piano nazionale di prevenzione).

Estratti "Altroconsumo", Milano, anno XLI, n.293, giugno 2015 pp.23-26.  Adattato e illustrato per essere pubblicato da Leopoldo Costa.


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